martedì 22 dicembre 2009

Presepio Africano


Fa caldo a Tonj nonostante sia ormai natale.
Non c'è la neve sul presepe di Tonj.
Non ci sono luminarie per le vie di Tonj e sotto l'abete non ci sono regali, anzi non c'è neppure l'abete, difficile trovarne qui in Sudan..
Però ci sono le capanne nel presepe di Tonj, molte, col tetto di paglia ed i muri di argilla secca. spesso fuori ci sono pure asini e buoi.

La madonna del nostro presepe è giovane, ha gli occhi scavati dalla malaria e i seni cadenti e ormai prosciugati dalle maternità ed un fagotto legato sulla schiena.

E' alto ed orgoglioso il nostro Giuseppe. Le cicatrici della sua tribù sulla fronte nera e il bastone del comando tra le mani. Porta un kalashnikov a tracolla e cammina a piedi nudi.

E' nero il nostro Gesù bambino.
Nudo e malato come i tanti bimbi che ogni giorno passano per il nostro ospedale.
Ha il volto di Thomas il nostro Gesù bambino, pieno di lacrime che scavano solchi sul viso impolverato.
Ha le mani di Abel il nostro Gesù bambino, tremanti per la paura e per i brividi della malattia.
Ha il corpo di Yar il nostro Gesù bambino, sconquassato dai tremori della malaria.
Ha le gambe di Madut il nostro Gesù bambino, gracili e rachitiche per la fame.
Ha i piedi di Abram il nostro Gesù bambino, ustionati dal fuoco e gonfi per l'infezione.

Ma soprattutto il nostro Gesù bambino ha gli occhi di tutti i nostri bimbi;
Gonfi per la febbre ma pieni di curiosità e di forza.
Pieni di sofferenza e di rabbia.
Di dubbi e di voglia di vivere.

Ma qualunque sia la sua condizione, il nostro Gesù bambino ha sempre un grande sorriso pieno di speranza ogni volta che qualcuno gli tende le mani e lo stringe a se anche solo per un attimo.

Questo è il presepio di Tonj, del Sudan e di tutta l'Africa.

UN FELICE NATALE DA TUTTI NOI!

sabato 19 dicembre 2009

Abram


Abram ha circa un anno.
Si, circa perché qui l'età, come il tempo, è un concetto non ben definito e nessuno ritiene importante una data su un calendario.
E' stato portato qui perché ha i piedi completamente ustionati il piccolo Abram, bruciati dal fuoco dove è caduto mentre giocava con la sorellina appena più grande di lui.
La mamma, forse nemmeno ventenne, l'ha portato qui dopo averlo tenuto immobile una settimana in una capanna a molti chilometri dal nostro ospedale.
Quando l'infezione e la febbre hanno iniziato a diventare troppo forti se l'è caricato sulla schiena e s è incamminata fino a qui.
Quando è arrivato non piangeva Abram. Aveva solo i grandi occhi scuri sbarrati dalla paura e dal dolore.
Ha versato solo qualche lacrima quando l'infermiera ha tagliato gli stracci che avvolgevano i piedini ormai purulenti e ha fatto sentire le sue grida solamente quando la pulizia e la medicazione sarebbero diventate dolorose anche per un adulto.
La sua condizione ha imposto di ricoverarlo nonostante la riluttanza della mamma che come tutti i pazienti che passano di qui difficilmente accettano di restare anche una sola notte lontano dalla propria capanna e dal proprio clan.
I giorni sono trascorsi uno dietro l'altro ed in breve Abram è diventato la nostra mascotte. Lentamente il suo corpo ha cominciato a reagire agli antibiotici ed alle medicazioni ed all'infuori del temuto appuntamento giornaliero con l'infermiera che lo medica, ormai si è abituato a vederci sempre attorno a lui e per noi è normale, ogni volta che passiamo di li, infilare la testa nella stanza dov'è ricoverato insieme alla sua mamma che gli tiene compagnia.
Basta uno sguardo e Abram, che si trascina come un lombrico su e giù per il materasso, vestito solo delle fasciature che gli avvolgono i piedi, accetta felice di farsi prendere in braccio e fare una passeggiata all'aria aperta.
Abram non apre mai bocca ma i suoi occhi sempre spalancati, curiosi ed attenti a tutto quello che accade attorno, ti scrutano e sembrano volerti leggere nel pensiero e quando gli parli ti ascolta attento, nonostante l'idioma così lontano da quello che abitualmente sente in braccio ai suoi genitori.
Portare in giro Abram, dargli da mangiare e farlo sorridere è ormai l'attività principale del nostro tempo libero, nonostante ogni volta che lo si prende in braccio significa doversi cambiare subito dopo, dato che la sua capacità di sporcarsi e di sporcarti è ormai proverbiale.
A volte la notte Abram inizia a piangere, per il caldo, gli incubi o i dolori e non è raro incontrarsi o scontrarsi nel buio del cortile mentre preoccupati andiamo a controllare cosa disturba la nostra piccola puzzola. Quasi sempre basta prenderlo in braccio un po' e i suoi grandi occhi scrutatori lentamente si richiudono stanchi.
E' stato un gran giorno per noi quando l'infermiera ha finalmente liberato uno dei suoi piedini dai bendaggi, stabilendo che ormai la situazione era molto migliorata e almeno un piede poteva restare libero.
Ora Abram si alza e cerca di restare in equilibrio e fare qualche passo.
Ci vorrà ancora del tempo prima che anche l'altro piede possa definirsi guarito e lui possa ritornare al suo villaggio e forse quel giorno qualcuno di noi sarà un po' triste per aver perso la nostra mascotte, ma vedere gli occhi felici di Abram mentre i suoi piedini ormai guariti gli permetteranno di tornare a sgambettare sarà la più grande di tutte le soddisfazioni, oltre al nostro più bel regalo di natale!
FAbrizio

venerdì 18 dicembre 2009

Notti d'Africa

Sono lunghe le notti d'Africa.
Disteso sotto la cappa della zanzariera, che sembra opprimerti ancora di più d'umidità e caldo soffocante che anche stanotte non darà tregua a nessuno, fino a che la prima brezza dell'alba non soffierà dolce e leggera sui corpi di uomini e bestie che l'hanno attesa pazienti e potranno godersi il premio e le ultime ore di sonno, sfiorati da un velo di refrigerio.
Molti anche questa notte hanno deciso di passarla all'esterno, posando un materasso o una branda sotto un tetto di stelle, spettacolo che ipnotizza e distoglie il pensiero dalla canicola notturna, prezioso dono che l'Africa fa a chiunque alzi il naso al cielo e resta ammutolito dallo spettacolo celeste che incanta e fa sentire minuscoli.

Non sono silenziose le notti d'Africa;
Se attento ti metti in ascolto puoi sentire i tamburi che lontani e vicini si richiamano. Suoni che risalgono direttamente dal profondo della notte dei tempi ed esorcizzano la paura del buio e del silenzio che da sempre accompagna l'uomo.
Moderna controparte, lo scordato ritmo dei motori a scoppio dei generatori che mantengono accese le poche luci della città, difendendola dalle tenebre che altrimenti l'avvolgerebbero come un manto.
E poi finalmente la notte prende il sopravvento, gli uomini ripongono i tamburi e il poco carburante finisce improvvisamente, lasciando che uno dopo l'altro i motori tossiscano morenti mentre le lampadine inesorabilmente cedono alla sete del prezioso combustibile.
Ma la notte è comunque animata dai tanti altri rumori che ti permettono di non affogare in questo buio troppo nero per i nostri occhi europei.
Il singolo latrato di un cane disturbato da qualcosa diventa l'immediato segnale per un concerto che si insegue e si richiama dal centro della città fino ai villaggi più lontani e dispersi nella savana.
Da una capanna il pianto di un bambino nervoso e sfinito dal sonno, consolazione che il caldo non vuole concedergli ed i colpi di tosse provenienti dall'accampamento dei tubercolotici, sconquassati dal male che li ha colpiti.
Poi voci, grida, uccelli notturni che lanciano il loro lugubre richiamo e lo zampettare dei topi che si rincorrono sulle lamiere del tetto, il tutto che si fonde in un suono che si mescola e diviene forma onirica e colore, mentre la stanchezza prende il sopravvento e la veglia si trasforma in sonno.

E finalmente l'alba riporta la luce su un mondo che fino a pochi attimi prima era dominato dall'oscurità e come una sveglia naturale la vita riparte dal punto in cui le tenebre l'avevano congelata la sera prima;
Donne seminude allattano neonati accucciate fuori dalla loro capanna mentre ragazzini appena adolescenti liberano dagli steccati le magre bestie dalle immense corna.
Uomini che silenziosi partono per chissà dove o per trovare anche oggi qualcosa per sbarcare il lunario ed altri che messo in spalla l'onnipresente Kalashnikov, fedele compagno, tornano alla caserma a cui sono assegnati.
I pozzi si animano di donne e bambini con secchi colorati, mentre pazienti attendono il loro turno per attingere la loro razione d'acqua e chi ha già terminato se ne va con il prezioso carico elegantemente in equilibro sul capo. Sgangherate biciclette cariche all'inverosimile combattono per mantenere il precario equilibrio, sobbalzando tra solchi e buche che la stagione delle piogge ogni anno lascia in eredità al periodo della secca, mentre il capriccio di capre e pecore decide quando e se liberare la carreggiata.

L'Africa lentamente riprende vita, colore e profumo. Come un lento formicaio la città riparte senza fretta, il fumo dei tanti fuochi si confonde alla polvere rossa alzata dalle ruote di possenti camion che passata la notte al sicuro di un centro abitato, ripartono per chissà dove, carichi oltre qualsiasi limite e logica di gente, animali e merci che si stipano in ogni spazio libero.
Il mercato comincia ad affollarsi di venditori che espongono le loro merci colorate e tutte uguali e di bottiglie impolverate di bibite e liquidi d'ogni sorta.

L'Africa è tutto questo; Una grande ameba chiassosa e colorata che pulsa e si muove ad un ritmo slegato dal tempo, per lo meno come noi possiamo concepirlo, ma una volta che ti attira ed ingloba in se, difficilmente si riesce a sfuggirle e comunque il suo marchio può restarti impresso per sempre.
FAbrizio

giovedì 17 dicembre 2009

Africa, finalmente!


Milano, il mediterraneo, il Cairo; la mia porta per l'Africa e poi da li giù lungo il Nilo che si srotola per centinaia di chilometri sotto di noi e poi più nemmeno quello. Il mio viaggio sembra seguire un'antica cartina. Hic sunt leones scrivevano i romani sulle loro mappe una volta giunti qui.
Poi finalmente di nuovo luci, luci d'Africa, il Kenya, Nairobi, riflesso d'occidente nel continente nero.
Nell'aeroporto leoni ed elefanti fanno bella mostra sui cartelloni pubblicitari delle tante agenzie di safari che attendono i pallidi europei che sognano l'Africa degli animali feroci e dei selvaggi che ballano ritmi tribali, il tutto con pensione completa ed aria condizionata. E nemmeno stasera gli agenti in attesa andranno via a mani vuote ma riusciranno a regalare ai molti bianchi in arrivo, l'illusione dell'Africa selvaggia all inclusive.
Qualche giorno di sosta in questa grande metropoli africana, ospite dei gentili padri salesiani, in attesa di risolvere le formalità burocratiche ed ottenere il visto per il Sud Sudan ed in attesa del volo settimanale per Rumbek.
Grazie all'operosità dei padri in un paio di giorni ottengo il mio lasciapassare; tutto è pronto, domani mattina si parte, destinazione Tonj!
E l'indomani dopo un rudimentale imbarco su quello che sembra più un furgone dell'aria che un aereo ci ritroviamo in 5 a salutare Nairobi, i restanti 10 posti occupati invece da pacchi e scatoloni. In generale le facce sembrano tutte piuttosto perplesse riguardo alle capacità del trabiccolo di condurci a destinazione ma dopo qualche scossone iniziale tutto si stabilizza e il Kenya che scorre sotto di noi diventa un ottimo diversivo. Scalo tecnico sul confine Keniota-Sudanese e poi via di nuovo fino a Rumbek, dove una maglietta di don Bosco mi dirige dritto dai miei ospiti.
Faccio subito la conoscenza di Brother Mattew, giovane seminarista nigeriano che insieme all'autista mi porterà alla missione.
Risolte velocemente le pratiche doganali carichiamo la Jeep che come vuole la buona tradizione africana parte solo dopo una buona spinta, aiutati anche da qualche passante che tra una risata e l'altra contribuisce allo sforzo collettivo.
Mi avvisano subito che ci vorranno quasi 4 ore per arrivare a destinazione, cosa che ingenuamente non mi spaventa molto, ritenendomi ormai abbastanza esperto di strade africane; Pia illusione di cui mi pentirò già dopo venti minuti, dato che una strada in quelle condizioni l'avevo sperimentata raramente e 4 ore così mi sembrano allucinanti. I ragazzi mi avvisano che ad ogni viaggio la pista peggiora, anche se mi chiedo come possa diventare peggio di così..
Lasciata Rumbek alle spalle, ogni segno di civiltà scompare, a parte qualche rara capanna, l'improvvisa apparizione di qualche bambino nudo che ci insegue salutando e scompare veloce nella nuvola di polvere che ci lasciamo dietro e qualche vacca che placida pascola in mezzo alla strada.
Circa a metà strada ci imbattiamo in un paio di blindati ONU. Era dai tempi della guerra in Bosnia che non vedevo blindati con il mitragliere in torretta, segno che nonostante tutto il Sudan non è ancora un paese completamente pacificato.
Finalmente, con le ossa ormai a pezzi giungiamo a Tonj, destinazione del mio viaggio e la mia nuova casa per i prossimi sei mesi. Magra consolazione vedere che anche i miei compagni di viaggio sono a pezzi quanto me, oltre che ricoperti dal perenne strato di polvere che in Africa ci si porta sempre addosso.
Faccio subito la conoscenza con Padre John Peter, rettore del centro e con gli altri seminaristi che vivono qui e con cui collaborerò nei prossimi mesi. E' bello arrivare in un luogo dove la semplicità e l'accoglienza delle persone ti fa sentire immediatamente a casa e Tonj e queste persone mi fanno subito quest'effetto.
Nella mia prima sera alla missione faccio subito la conoscenza con Riccardo, un signore veneto venuto qui per qualche mese per aiutare le suore con i lavori alla loro nuova casa. Oltre a lui, nella stanza accanto alla mia dorme Alan, volontario del VIS ed il suo amico Miguel, spagnolo, giocoliere, mago e clown che nel suo breve periodo qui sta facendo una serie di spettacoli che fanno impazzire i bambini nei vari villaggi dove si è recato.
Inutile dire che la compagnia non mi manca e pure l'Italia è ben rappresentata.
La sera seguente poi giunge pure Ido, ingegnere antennista che negli ultimi 10 anni ha disseminato le missioni dell'Africa di antenne radio per missionari e non e che anche a Tonj monterà l'antenna della nuova emittente Salesiana.
Padre John Peter mi affida il primo incarico come assistente di Ido e per 3 giorni ci troviamo a catalogare pezzi di antenna ed a fare misurazioni per poterla impiantare, data la notevole altezza di 60 metri che dovrebbe raggiungere una volta terminata. Dal container escono anche decine di cartoni di viveri provenienti direttamente dalla valle che mi rincuorano parecchio, che un pacco di pasta in certe situazioni apre il cuore!
Si comincia ad entrare nel ritmo del posto, a conoscere per nome le persone con cui ogni giorno si incrocia lo stesso sguardo e sorriso e le tante mani tese che ogni giorno ti vengono offerte con spontaneità e amicizia e sentirsi chiamare per nome fa già intuire di essere stato accolto nel gruppo e considerato un amico.
I pasti con i padri e il restare qualche minuto in più al tavolo dopo cena a scambiare 2 chiacchiere sugli avvenimenti della giornata fa sentire un po' in famiglia e contribuisce ancora di più alla voglia di darsi da fare per poter rendersi utile a questa comunità.
FAbrizio