mercoledì 12 gennaio 2011

Referendum: Il giorno più lungo



“Nhom Lau pan Janub”, “Freedom for Southern Sudan” urla un vecchio non appena la sua scheda cade nell'urna, mentre nell'aria agita la corta lancia segno distintivo degli uomini Dinka ed il cappello da cow boy rotola nella polvere, copia di quello da cui il presidente Salva Kir non si separa mai e che si dice sia un regalo del presidente Bush.
Come ad un segnale già programmato, tutte le donne che fino ad un attimo prima attendevano accucciate pazienti il loro turno per votare, scattano in piedi lanciando all'unisono l'acuto strillo che qui è il tipico grido di gioia femminile.
“Sono quarant'anni che attendiamo questo giorno”. Mi dice eccitato un distinto signore vestito in elegante stile europeo e con al collo il tesserino di commissario di seggio, ma che sulla testa porta le tipiche cicatrici circolari distintive dell'etnia Dinka.
Quarant'anni segnati da una guerra civile che si stima abbia fatto un paio di milioni di vittime e che ogni giorno ha preteso il suo tributo di sangue e in cui ogni famiglia del sud Sudan ha lasciato almeno un padre o un figlio, se non entrambi.
L'uomo col vestito elegante dice di venire da Londra in cui vive da oltre dieci anni, e dove ha avviato un'attività di import-export di automobili, “...ma non potevo mancare all'appuntamento più importante per il mio paese!”
Resterà per un paio di mesi, fino a che il risultato e l'indipendenza ormai certa non verranno proclamate e nel frattempo si è dato disponibile per dare una mano al personale che lavora ai seggi.
Un aiuto di certo utile, dato che da recenti stime, l'analfabetismo è una piaga ancora saldamente diffusa in sud Sudan e si stima che il 70% dei soldati, veri padroni del paese nonostante gli ultimi cinque anni di relativa pace, non sappiano ne leggere ne scrivere.
Nel frattempo all'interno del seggio è un continuo andirivieni di gente che è disposta a sobbarcarsi decine di chilometri a piedi e ore di coda pur di poter esprimere il proprio consenso alla separazione dal nord.
E' tutta una nazione quella che si vede passare di qui oggi;
Donne anziane e prosciugate dalla fatica e dai parti, giovani vestiti in un approssimativo stile rapper americano, con vistosi telefonini, quasi sempre senza credito e cuffie alle orecchie.
Vecchi scarni e barbuti con l'onnipresente cappello da bovaro americano, la lunga veste e la corta lancia nella mano, appena giunti dai cattle camps, dove si radunano le preziosissime vacche, unico ed inestimabile bene per i Dinka.
Mentre pazienti fumano la lunga e sottile pipa, altri uomini più giovani in divisa militare e il sempre presente Kalashnikov sulla spalla attendono impazienti cercando di scavalcare la fila approfittando dell'uniforme che qui è il migliore e più temuto lasciapassare.
Altri uomini, quest'ultimi senza uniforme ma sempre armati di fucile si mescolano alla folla, con occhio sospettoso e malcelata arroganza. Sono la nuova forza di sicurezza, istituita dal governo per tenere sotto controllo la situazione, ma probabilmente uno dei primi problemi che lo stesso governo dovrà risolvere quando avrà da gestire la situazione e si troverà tra i piedi questa numerosa schiera di giovani della “sicurezza” che in realtà sono una delle prime cause di corruzione del paese e sfruttando il loro illimitato potere non esitano a minacciare ed estorcere denaro alla gente, quasi sempre per fini personali.
Probabilmente non saranno gli arabi del nord quelli che il GOSS, il governo del sud Sudan, che si appresta ad insediarsi al potere dovrà temere.
La minaccia peggiore verrà dalla disastrosa situazione di un paese che da soli cinque anni ha conosciuto una pace approssimativa e che è riuscito a mantenersi in piedi solo grazie al costante pompaggio di valuta fresca inviato dall'occidente per cercare di mantenere stabili gli accordi di pace del 2005 ma soprattutto per ipotecarsi la fetta più sostanziosa della torta, una volta che il sud Sudan sarà del tutto indipendente e avrà pieno accesso agli immensi giacimenti di petrolio che si trovano nel sottosuolo.
Un paese la cui economia è basata quasi interamente sugli aiuti internazionali ed in cui il 99% dei servizi esistenti sono forniti dall'incalcolabile numero di ONG presenti e che ormai da sole fanno girare una buona parte del commercio locale ma nella realtà dopano il mercato causando un'inflazione che cresce ogni giorno.
A tutto questo bisogna aggiungere il fortissimo problema delle numerose etnie che spesso si guardano in cagnesco e sono in perenne conflitto tra loro per motivi tribali causati da terreni coltivabili, pascoli e bestiame, vera ricchezza e moneta di scambio per gran parte dei sud Sudanesi,di origine Dinka, l'etnia principale e che si considera l'unica erede del SPLA, l'esercito di liberazione che ha vinto la guerra con il nord e che di conseguenza è piuttosto maldisposta a condividere il potere con altri gruppi etnici, i quali per altro già reclamano cariche di potere anche per le loro rappresentanze.
A tutto questo si può aggiungere l'ondata di “Returners”, i sud sudanesi che si erano trasferiti al nord negli anni e che prima e durante il referendum stanno lasciando in massa il nord per tornare nel loro paese d'origine. Una vera e propria migrazione ma che ormai si potrebbe considerare un movimento di profughi i cui effetti si possono già vedere nei villaggi appena passato il confine tra nord e sud, dove già circa 30'000 persone sono giunte e si sono accampate un po' ovunque nelle zone paludose attorno ai centri abitati, circondati solo dalle cose più preziose che sono riusciti a trascinare con se: un televisore, un letto, un materasso e pacchi di vestiti ed altre poche cose.
Le stime dicono che per le prossime settimane potrebbero arrivarne fino a 150'000 ma che nel giro di un anno la cifra potrebbe salire fino ad un milione!
Gente che il governo del nord certo non cerca di fermare mentre quello del sud a caccia di voti e nuovi cittadini continua ad invitare quaggiù, senza però un reale e strutturato piano di accoglienza.
Basterebbe un niente per scatenare epidemie e conseguenti vittime che potrebbero diventare incontrollabili.
D'altra parte che potrebbe fare una nazione che vive ancora in larga parte sugli aiuti alimentari del “World Food Program” e in cui tutto è basato su una corruzione ormai talmente evidente da essere considerata buona norma.
Anche nella migliore delle ipotesi dunque, la strada del sud Sudan o Nuovo Sudan come viene comunemente definito qui, non può certo considerarsi dritta e lastricata d'oro, quanto piuttosto lunga ed impervia in una maniera che solo chi ha provato le strade locali può comprendere.
Sicuramente questa è una nazione con tutte le potenzialità per poter crescere e dare un nuovo futuro al proprio popolo, ma che nasce sotto una luna maligna, in un continente dove proprio ora si sentono riecheggiare nuovi tamburi di guerra ed in cui ancora vecchi incendi non sono stati sedati.
C'è da augurarsi che il ricordo dei tanti e paurosi anni di guerra vissuti da questo popolo possa essere il primo impulso per trovare nuove soluzioni e una via pacifica alla nascita dell'ultimogenito di Mama Africa.


FAbrizio Minini

sabato 20 novembre 2010

Referendum, dichiarazione di pace o preludio di guerra?


Sono lampi quelli che anche stasera all'imbrunire si intravedono guardando verso nord ed il rombo che si sente riecheggiare tra le colline e la savana è solo un tuono, ultimo strascico della stagione delle piogge che ci stiamo lasciando alle spalle ma forse oscuro presagio di quello che potremmo udire nei prossimi mesi.

Sei anni sembravano un futuro lontano e remoto quando nel 2005 vennero firmati i CPA, gli accordi di pace in cui si stabilì la scaletta dei passaggi che avrebbero portato ad una pace concreta e al definirsi di 2 entità distinte tra il nord ed il sud del Sudan, terminando così una volta per tutte una guerra civile durata quasi 40 anni e che aveva portato le vittime a cifre che qualcuno azzarda a sei zeri e centinaia di migliaia di profughi.
Ma i sei anni sono trascorsi in fretta, in una situazione di pacificazione zoppa e barcollante ma che tutto sommato ha tenuto ed ora, la data stabilita, il nove gennaio 2011 è drammaticamente vicina e, come era ampiamente previsto, la tensione negli ultimi mesi è cresciuta esponenzialmente e c'è ancora spazio perché il termometro possa salire ulteriormente.
Il nord Sudan guidato dal presidente Al Bashir, azzardatamente inserito tra i criminali internazionali dall'occidente ha trovato grazie anche a quest'accusa una crescita dei consensi e da Khartoum per bocca dei suoi ministri continua ad alzare ed allentare la tensione, dicendosi un giorno favorevole al referendum e ritrattando il giorno successivo, quasi a voler misurare lo spazio di manovra che avrà al momento decisivo.
Dal canto suo il generale Salva Kir, presidente del governo formale del sud Sudan, entità non ancora ufficialmente riconosciuta ma di fatto già esistente, forte dei numeri che sembrerebbero a favore della separazione, insiste che non ci sono impedimenti al regolare svolgimento del referendum e anche solo un rinvio sarebbe una palese violazione degli accordi di pace e una formale dichiarazione di guerra; Se il referendum non si dovesse svolgere il sud Sudan si dichiarerebbe comunque indipendente, a costo di cadere in un nuovo devastante conflitto.
Ma la vera partita in realtà la si gioca molti chilometri più a nord di Juba, capitale del sud Sudan.
Il vero epicentro degli eventi si trova infatti nella cittadina di Abyei, vicino alla linea di confine con il nord ma di fatto ancora nel sud Sudan. E' li infatti che sono localizzati i più importanti giacimenti di petrolio, cuore della questione e dell'interesse di entrambe le fazioni in lotta.
E mentre Salva kir invoca all'Onu la dislocazione di caschi blu come truppe di interposizione lungo la linea di confine durante il referendum, il nord si è già detto assolutamente contrario alla proposta e l'ONU stesso non sembra interessato a farsi tirare in mezzo ad una questione dagli esiti incerti ed insiste per le vie diplomatiche. Se non bastasse, a scaldare ulteriormente la situazione rimane sospesa la questione del diritto di voto ai Missiriyah. Tribù nomade di origine araba che proprio per motivi di pascolo delle greggi, oltre che per legami di affinità col nord, si dice sfavorevole alla secessione e per questo il sud vorrebbe considerarla tra le etnie che non hanno diritto di voto in quanto nomadi mentre ovviamente il nord la vorrebbe fra i votanti.
Il risultato é che già da mesi la linea di confine si sta riempiendo di soldati e mezzi di entrambi gli eserciti e ogni giorno noi stessi siamo testimoni di colonne di carri armati Merkava di produzione israeliana giunti giusto in tempo, nonostante l'embargo, per rimpinguare il già solido arsenale del SPLA, l'esercito sud sudanese, diretti verso nord insieme con truppe fresche di giovani soldati della nuova generazione, di quelli cioè abbastanza vecchi da aver vissuto la guerra ma troppo giovani per averla combattuta.

Sono cominciate nel frattempo le operazioni di registrazione della popolazione che solo dopo essersi registrata ed aver ricevuto il tesserino elettorale potrà recarsi all'urna per il referendum.
Al sud si registrano code ai seggi fin dall'alba e colpisce favorevolmente il numero di donne che si recano ai centri di registrazione.

Quello che accadrà da qui alla data fatidica del nove gennaio é davvero difficile da prevedere. Qualche scaramuccia di certo non mancherà e come é già accaduto per le elezioni di aprile, seppur svoltesi in maniera regolare, qualcuno cercherà di far alzare la tensione e forzare la mano e qualche vittima prevedibilmente ci sarà, sapendo soprattutto che le armi sono in mano a ragazzotti riempiti di retorica e dal grilletto facile.
Ma come sempre il vero ago della bilancia verrà spostato da pressioni e promesse dei governi occidentali e della Cina, entrambi interessati al petrolio sudanese ed a non avere un altro focolare di guerra proprio in una zona d'importanza strategica e che inevitabilmente rischierebbe di divenire terreno fertile per l'estremismo islamico che già sta conquistando proseliti e terreno dalla Somalia al Mali.
FAbrizio

venerdì 24 settembre 2010

Ritorno a Tonj


E' sempre una strana sensazione tornare in un posto che è stato la propria casa per un lungo periodo. Ritrovare volti conosciuti, strette di mano e abbracci. Gente che non ti ha dimenticato, che sa il motivo per cui sei tornato e che soprattutto è felice di sapere che hai mantenuto la promessa fatta prima di andartene: tornare per finire quello che era stato iniziato, dare a questo villaggio un nuovo ospedale!

Troppe promesse vengono fatte a questa gente e puntualmente vengono disattese. Ma questa è una di quelle che non vogliamo e non possiamo scordare! In un momento storico così importante e così delicato per il sud Sudan, a pochi mesi dal referendum che potrebbe sancire una volta per tutte la scissione dal nord e la tanto bramata indipendenza dopo 40 anni di guerra civile, anche la costruzione di un ospedale ha un significato ancora maggiore: è un gesto che porta speranza ad un paese che diventando indipendente avrà bisogno di tutto per poter partire nel modo giusto e per garantirsi un futuro di pace.

Se il nostro sogno riuscirà a realizzarsi, e ce la metteremo tutta per far si che questo accada, potremo davvero dire di aver fatto più di un semplice ospedale, sapremo di aver dato anche noi il nostro contributo per donare alla gente dell'Africa un po' della pace che tanto brama e di cui tanto ha bisogno.

FAbrizio

domenica 11 aprile 2010

Election days


Giornata infuocata quella di oggi per il Sudan che si appresta ad andare a votare per le elezioni presidenziali.
E non solamente per il sole a picco e gli oltre 40 gradi che colpiscono come un maglio, ma soprattutto per la tensione, che come la temperatura, sale esponenzialmente col passare delle ore.
Agitazioni e problemi erano ampiamente previsti, soprattutto nel sud Sudan che con queste elezioni si avvia alla seconda tappa del percorso previsto dagli accordi di pace del 2005 per arrivare poi nel gennaio prossimo al referendum che sancirà l'indipendenza del sud da Khartoum.
L'unica incertezza riguardava le modalità ed i motivi dell'agitazione prevista per le prossime ore. Ma è bastato fare un rapido giro dei seggi nelle prime ore del mattino per capire che qualcosa non andava. Centinaia di elettori infatti, recandosi alla stazione elettorale a loro assegnata non hanno trovato il proprio nome nelle liste, nonostante avessero ottenuto pochi mesi prima la tessera elettorale consegnata durante la campagna nazionale di registrazione. E la sola indicazione che i giovani incaricati ai seggi sanno dare è tentare in un'altra delle stazioni elettorali presenti nel villaggio, sperando che il proprio nome sia finito per un disguido in quella lista, con l'ovvio risultato di un'inutile quanto nervosa transumanza di elettori tutt'ora a caccia del proprio nominativo.
Ma incredibilmente, centinaia di potenziali votanti sembrano misteriosamente scomparsi dagli elenchi di registrazione, impedendo cosí a moltissimi elettori di esercitare il proprio diritto; Così, dopo un'estenuante caccia al proprio seggio, molti rinunciano tesi e scoraggiati.
La parola complotto inizia già a passare di bocca in bocca e nessuno è disposto a credere all'errore. Lo stesso ministro delle finanze del GoSS, il governo ombra sud sudanese, organo che si prepara ad assumere pieni poteri dopo la secessione dal nord, si trova nella stessa situazione di molti suoi concittadini e da stamattina è a caccia del proprio nome e di quello di quindici persone del suo clan, misteriosamente scomparsi dalle liste elettorali del proprio villaggio.
Rimangono ancora due giorni per poter votare e per cercare quindi di dare la possibilità a tutti gli elettori estromessi di dare la loro preferenza, ma gli uomini del SUNDE, l'organo scelto da Khartoum per sorvegliare sul regolare svolgimento delle elezioni sembrano piuttosto in difficoltà e senza una vera risposta o soluzione da dare alla gente, mentre SPLM, il partito del presidente Salvakir, che nel sud Sudan dovrebbe vincere a mani basse inizia già ad agitare le acque, per mezzo dei suoi uomini sparsi un po' ovunque sul territorio ed a gridare a brogli e sabotaggi che sebbene siano abbastanza evidenti, non necessitano di ulteriore pubblicità, a meno che non si voglia accendere la miccia troppo presto.
Dalla visita, un paio di settimane fa, del presidente Salvakir nei villaggi del sud Sudan sembra passato già un secolo.
Il suo arrivo atteso per due giorni ed una folla in tripudio che gli ha riservato un'accoglienza degna di colui che ormai tutti considerano formalmente l'unico presidente, sembra già un avvenimento fuggito via nel fiume di parole spese in questi ultimi giorni e il suo comizio nella piazza stracolma, pieno di promesse di un futuro di pace, progresso e sviluppo per tutto il sud Sudan dal momento in cui il referendum sancirà la secessione del prossimo anno, riascoltate ora risultano solo parole al vento, mentre la realtà è ben diversa.
Le armi hanno parlato in tutti i villaggi fino a pochi giorni prima del voto e i continui scontri fra clan per il possesso di bestiame, l'unico vero valore del popolo Dinka vanno ad aggiungersi al caos elettorale che sta venendo a galla in queste ore e che potrebbe essere l'ennesima scintilla per nuovi incidenti e nuove violenze, incubo di una popolazione ormai allo stremo ma probabile desiderio proibito di chi a Khartoum spera in questa maniera di ritardare referendum e secessione dal sud e dai suoi ambiti pozzi petroliferi.
Fabrizio Minini

mercoledì 3 marzo 2010

Sudan infuocato

I giorni delle elezioni per il sud Sudan si avvicinano rapidamente e la tensione prevista già da tempo, puntuale inizia ad alzarsi come una febbre malarica che in un attimo diventa un fuoco rovente e brucia e porta dolore.
Ma forse non ci si aspettava certo che anche le vacche ci mettessero del loro per agitare le acque.

Proprio il bestiame invece, vero ed unico capitale del popolo Dinka è stato il motivo che ha acceso i focolai di scontri degli ultimi giorni e proprio intorno alla cittadina di Tonj.

Hanno atteso il favore delle tenebre gli uomini giunti dai dintorni di Chiubet, un villaggio ad una cinquantina di km da Tonj prima di attaccare i cattle camps, i punti di raccolta in cui viene tenuto tutto il bestiame e con un rapido colpo di mano hanno eliminato i pastori di guardia e dopo averne radunate più di ottocento si sono avviati lungo la strada che li riportava ai loro villaggi con il ricco bottino al seguito. La reazione da Tonj non si è fatta attendere e dopo aver radunato gente comune e soldati risvegliando l'intera città a colpi di Kalashnikov, gli uomini sono partiti all'inseguimento, venendo in contatto poche ore dopo e causando parecchie vittime sia tra gli uomini che tra i soldati che in teoria avrebbero dovuto cercare di interporsi tra le fazioni.
Ma per il bestiame nulla da fare, cosa che il giorno successivo ha scatenato nuovamente l'ira degli uomini di Tonj che già dalla mattina hanno cercato di riarmarsi e ripartire alla volta di Chubet, ma stavolta i soldati sono intervenuti immediatamente, sparando a casaccio per tutta la giornata e costringendo tutti, noi compresi a rimanere nelle proprie abitazioni, ma nonostante questo a sera si contavano almeno tre vittime cadute sotto i colpi intenzionali o meno dei soldati.
Anche intorno a Chubet la situazione però non era migliorata, infatti gli stessi uomini che il giorno prima avevano rubato il bestiame si sono poi divisi in fazioni per spartirsi le mandrie, cosa trasformatasi rapidamente in scontri armati tra clan causando tra le varie conseguenze anche l'impossibilità di utilizzare in sicurezza la strada tra Tonj e Rumbek.

Tutta la situazione ha ovviamente generato una escalation di violenze che nemmeno l'esercito è ancora riuscito a sedare, costando anzi parecchie vittime anche alle truppe governative finite più volte in imboscate che li ha obbligati a ritirarsi a volte senza riuscire a riportare a casa nemmeno i corpi dei compagni caduti e facendo aumentare l'ira tra i militari.
Nel frattempo anche da altri villaggi del Sud Sudan giungono notizie di cattle camps attaccati e di villaggi bruciati con decine di vittime tra i civili dovute alla reazione spesso sproporzionata dell'esercito come ritorsione ai soldati uccisi.

Se gli uomini del governo Sud Sudanese non interverranno al più presto per sedare quelli che per ora sono ancora semplici focolai, prima che diventino un vero incendio, le tanto attese e temute elezioni potrebbero nella migliore delle ipotesi rivelarsi un fiasco ancor prima di cominciare o nella peggiore un bagno di sangue tra fazioni che sono ancora legate più al proprio bestiame che alla possibilità di diventare finalmente uno stato indipendente.

Dopo cinque anni dagli accordi di pace si sta rapidamente avvicinando l'ora fatale del referendum che nel gennaio 2011 dovrebbe sancire la separazione tanto attesa tra nord e sud, ma se le premesse sono queste e non si trova rapidamente una via d'uscita, forse a decidere non saranno i voti della gente ma di nuovo le armi ed i cannoni.

FAbrizio

mercoledì 13 gennaio 2010

Africa & Media


Strano sentirsi per una volta al centro della notizia ed allo stesso tempo impotenti testimoni dei fatti che avvengono in questo paese.
I primi giorni dell'anno sui Media internazionali rimbalza la notizia di scontri con centinaia di vittime nella città di Tonj nel sud del Sudan. Poche ore prima la Radio di Juba contatta telefonicamente proprio la nostra missione per avere informazioni a riguardo. La nostra risposta negativa probabilmente però non piace ai giornalisti della capitale, che in parte per sensazionalismo ma soprattutto per sostenere il crescente clima di tensione che, per la gioia di Khartoum, nell'ultimo periodo fomenta l'instabilità di questo già agitato paese, decidono di pubblicare la notizia. I Media internazionali, dalla BBC alla Reuters rilanciano con stupefacente rapidità l'allarmante avvenimento che incredibilmente appare perfino su qualche giornale italiano, di solito così distratto riguardo agli avvenimenti africani..
Solo molte ore dopo si scopre che in verità gli incidenti ci sono pure stati, purtroppo anche con parecchi morti, ma per motivi tribali legati a furti di bestiame, in villaggi in remote zone a est di Tonj. Situazione che purtroppo si ripete da secoli e che sicuramente non per questo può essere giustificata, ma certamente analizzata sotto una luce ben diversa da quella offerta dagli organi di informazione.
Nel frattempo però “sbadatamente” nessuno qui sembra accorgersi che a poco più di un centinaio di km da qui e a poche ore dalla città di Juba un intero villaggio è stato completamente raso al suolo dai militari del governo di Khartoum, come rappresaglia ad un'imboscata in cui 18 soldati hanno perso la vita, uccisi da alcuni uomini del villaggio di Akot furiosi per la morte di due civili ammazzati il giorno prima dell'esercito.
Akot ora non esiste più ed al suo posto resta solo un cumulo di macerie fumanti, probabilmente molti morti e feriti e gente terrorizzata in fuga.
Ovviamente la notizia è passata sotto omertoso silenzio da parte di tutti, dal Sudan all'Europa!

FAbrizio

martedì 22 dicembre 2009

Presepio Africano


Fa caldo a Tonj nonostante sia ormai natale.
Non c'è la neve sul presepe di Tonj.
Non ci sono luminarie per le vie di Tonj e sotto l'abete non ci sono regali, anzi non c'è neppure l'abete, difficile trovarne qui in Sudan..
Però ci sono le capanne nel presepe di Tonj, molte, col tetto di paglia ed i muri di argilla secca. spesso fuori ci sono pure asini e buoi.

La madonna del nostro presepe è giovane, ha gli occhi scavati dalla malaria e i seni cadenti e ormai prosciugati dalle maternità ed un fagotto legato sulla schiena.

E' alto ed orgoglioso il nostro Giuseppe. Le cicatrici della sua tribù sulla fronte nera e il bastone del comando tra le mani. Porta un kalashnikov a tracolla e cammina a piedi nudi.

E' nero il nostro Gesù bambino.
Nudo e malato come i tanti bimbi che ogni giorno passano per il nostro ospedale.
Ha il volto di Thomas il nostro Gesù bambino, pieno di lacrime che scavano solchi sul viso impolverato.
Ha le mani di Abel il nostro Gesù bambino, tremanti per la paura e per i brividi della malattia.
Ha il corpo di Yar il nostro Gesù bambino, sconquassato dai tremori della malaria.
Ha le gambe di Madut il nostro Gesù bambino, gracili e rachitiche per la fame.
Ha i piedi di Abram il nostro Gesù bambino, ustionati dal fuoco e gonfi per l'infezione.

Ma soprattutto il nostro Gesù bambino ha gli occhi di tutti i nostri bimbi;
Gonfi per la febbre ma pieni di curiosità e di forza.
Pieni di sofferenza e di rabbia.
Di dubbi e di voglia di vivere.

Ma qualunque sia la sua condizione, il nostro Gesù bambino ha sempre un grande sorriso pieno di speranza ogni volta che qualcuno gli tende le mani e lo stringe a se anche solo per un attimo.

Questo è il presepio di Tonj, del Sudan e di tutta l'Africa.

UN FELICE NATALE DA TUTTI NOI!